«Sei nomade se ti sposti, ma io sono sempre stata qua»
Monica è figlia di genitori montenegrini. Lei è nata a Roma, al “Casilino 900”, oggi vive da sola nel “campo rom” di Salone ed è mamma di due figli di quattro e sei anni. Non si è mai spostata dall’Italia e soffre del pregiudizio secondo cui quella dei rom sarebbe una popolazione senza fissa dimora: «Non siamo nomadi. Io sono sempre stata qui».
Quando ha saputo che sua figlia aveva partecipato alla recita scolastica senza essere stata avvisata, Monica ha sofferto molto. È andata a scuola per chiedere spiegazioni e l’insegnante, stupita, si è scusata dicendo che non credeva le potesse interessare in quanto rom, quindi nomade. «Le ho fatto capire che io ci tengo e da quel giorno mi ha sempre avvisato» – racconta con un ampio sorriso – «lo scorso Natale ho assistito per la prima volta alla recita di mia figlia, interpretava il ruolo di asinello per il presepe vivente. È stata un’esperienza bellissima, mi sono commossa e sono stata bene insieme a tutte le altre mamme».
Secondo i dati disponibili sul tema, oggi solo il 3% della popolazione rom presente in Italia è nomade, prevalentemente per svolgere attività lavorative stagionali.
Il falso mito legato al presunto nomadismo dei rom nasce da un equivoco di fondo: storicamente, infatti, più che di una scelta di vita per molti si è trattato di diaspora, fuga dalle guerre o, appunto, esercizio di attività lavorative che richiedevano continui spostamenti. Proprio in relazione a questo presupposto nomadismo, fin dagli anni ’80 si sono applicate negli anni misure discriminatorie che hanno portato fino alla “politica dei campi rom”.
L’istituzionalizzazione dei campi ha di fatto prodotto, attraverso la ghettizzazione e la segregazione di uomini e donne in base alla propria etnia, un vero e proprio razzismo di stato. L’equivoco sul nomadismo e la presunta necessità di vivere nei “campi” o in aree attrezzate è oltretutto completamente infondato: solo un quarto della popolazione rom presente in Italia vive nei “campi”, tutti gli altri hanno una casa, emblema incontrastabile della “fissa dimora”.
«Sei nomade se ti sposti, ma io sono sempre stata qua», racconta Monica con amarezza. Nata e cresciuta nel grande “campo” informale del “Casilino”, collocato nel quartiere omonimo da cui prende il nome, dopo il passaggio delle ruspe che hanno portato allo sgombero forzato degli abitanti, Monica è stata trasferita nel campo di Salone, dove vive attualmente con i suoi figli. Nonostante sia effettivamente italiana, è apolide di fatto e non ha i documenti. Senza cittadinanza né permesso di soggiorno, oltre alle difficoltà per ottenere un lavoro o l’assistenza sanitaria, ha avuto problemi anche per la registrazione dei figli all’anagrafe.
In Montenegro, il paese che secondo la legge dovrebbe darle i documenti, non ci è mai stata e non ha nessuna intenzione di andarci. La sua vita l’ha costruita in Italia e vuole continuare a viverla qui. Non conosce la lingua montenegrina e quando le è capitato di ascoltare la musica originaria del paese dei suoi genitori, ha chiesto di farsi tradurre il testo. Vivere in un “campo” e senza documenti per lei, come per molti altri che vivono nelle sue stesse condizioni, è una privazione dell’identità oltre che una discriminazione: «sento che è come se non esistessi», confida.
Per Monica il confronto con l’esterno è molto importante, per questo l’esperienza a scuola di sua figlia è stata fondamentale. Ha conosciuto le mamme delle altre bambine, si è rapportata con loro e si è sentita parte di una comunità. È stato motivo di soddisfazione anche avere l’opportunità di mostrare, attraverso la sua esperienza, un’immagine lontana dagli stereotipi con cui i rom vengono normalmente etichettati.