Il nostro nome
Il 21 luglio di alcuni anni fa una bambina ha subito abusi e maltrattamenti da quelle istituzioni che avrebbero dovuto difenderla e tutelarla. A ricordo di quel triste giorno è nata l’Associazione 21 luglio, alla quale la scrittrice Susanna Tamaro ha regalato questo bellissimo articolo.
Chi difende i bambini dalle leggi che dovrebbero difenderli?
di Susanna Tamaro
In questi ultimi anni, per una serie di circostanze, mi sono imbattuta più volte in storie di bambini e ragazzi dati in affido e dei loro rapporti con le istituzioni preposte alla loro tutela. Quello che purtroppo mi è stato subito chiaro è che – accanto a situazioni positive in cui davvero esiste la volontà precisa di agire per il bene del minore – convivono situazioni in cui il bene del bambino non viene minimamente tenuto in considerazione. Sono casi in cui la legge, da strumento di tutela si trasforma in strumento di abuso, abuso silenzioso, difficile da recriminare perché gli adulti coinvolti vivono spesso in condizioni di disagio e il bambino non ha voce in capitolo. Abuso criminale, perché, perché dietro a quell’atto, destinato a riempirsi di polvere nei faldoni del tribunale, si cela un dramma capace di devastare una vita.
Ricordo anni fa di essere stata resa partecipe del caso di un bambino nato da una situazione molto problematica (la madre era drogata, il padre sconosciuto) e affidato dalla nascita a una famiglia affettuosa e attenta che, con altri figli, viveva in campagna. Un brutto giorno, quando ormai il bambino andava alle elementari, i carabinieri sono andati a prenderlo a scuola e, senza nessun preavviso l’hanno riconsegnato alla madre naturale. La situazione della donna non era affatto migliorata, anzi, viveva in condizioni di grande promiscuità e degrado, ciononostante il tribunale aveva deciso che il bambino – che non aveva mai vissuto con la madre – dovesse tornare a vivere con lei. Quando i genitori affidatari – giustamente preoccupati dai messaggi che ricevevano dal bambino che continuava a ripetere di volersi uccidere – andarono al tribunale per chiedere spiegazioni, vennero trattatati da criminali perché in quegli otto anni, avevano osato affezionarsi al bambino, che giustamente li chiamava mamma e papà. “Voi non siete niente per lui, non avete nessun diritto” disse loro il giudice. “Avete fatto solo sbagli su sbagli, creando un rapporto affettivo con un bambino che dovevate solo crescere”.
Ma perché, dopo otto anni, era successo tutto questo, dato che le condizioni della madre non era migliorate, anzi peggiorate? La ragione è agghiacciante, nella sua banalità. L’assistente sociale che aveva preso in carico il caso aveva deciso di cambiare settore di appartenenza e di occuparsi di anziani con i quali si sentiva più affine e dunque, prima di lasciare l’incarico, doveva chiudere d’ufficio tutti i casi ancora in sospeso, e tra questi casi c’era anche quello di questo bambino che, a suo avviso, andava restituito alla famiglia originaria. Spaventosamente semplice, spaventosamente devastante.
Chi tutela i bambini dalla legge? Da una legge che dovrebbe essere al loro servizio e invece si avventa contro di loro con una furia distruttiva di cui è difficile immaginare le conseguenze?
Queste persone che agiscono in questo modo si sono mai fermate a riflettere, al di là di tutti i trattati di psicologia infantile che hanno letto, al di là di tutti i convegni sull’infanzia a cui hanno partecipato, che cos’è veramente un bambino? Quali sono i fattori che gli permetteranno uno sviluppo il più possibile equilibrato e quali quelli che mineranno il suo futuro? Sono mai stati bambini, loro? Hanno mai avuto paura, hanno pianto, si sono mai sentiti soli, disperati? Forse le persone che si comportano in questo modo appartengono a quella felice parte del genere umano che ha avuto in dono dei genitori stabili e affettuosi, un’infanzia felice e dunque non è in grado di rendersi conto che cosa sia la deprivazione. O forse appartengono a un’altra categoria, quelle delle persone senza cuore, dall’affettività raggelata che hanno come unico riferimento la pedissequa applicazione delle leggi.
Queste persone, la sera, quando vanno a dormire, si fanno mai delle domande, hanno mai delle inquietudini, non sentono mai dentro di sé qualcosa che le turba? Quella disperazione, quei cuori infranti provocati dalle loro azioni, li lasciano indifferenti? Non si pongono mai la domanda: “Che senso ha tutta questa inutile sofferenza?” Già, perché si tratta di sofferenza inutile, sofferenza che era evitabile, se si fosse agito secondo i semplici criteri del buonsenso umano e dell’affettività.
Come si può strappare un bambino – che ha vissuto per tre, quattro, otto anni con delle persone che giustamente reputa i suoi genitori – senza nessun preavviso dalla sua casa e dai suoi affetti, senza neppure dargli la possibilità di una continuità di rapporto con chi lo ha cresciuto, e sostenere che questa violenza sia per il suo bene?
Ho visto purtroppo ripetersi la storia sotto i miei occhi con un’altra bambina che ho tenuto in braccio da neonata, che ho visto crescere serena e allegra con la sua famiglia affidataria e che improvvisamente – come nelle fiabe più brutte e più cupe, quelle in cui gli orchi si avventano sui bambini e li trascinano nella loro casupola nel bosco – è stata rapita con l’inganno, a solo due anni e mezzo, dalla famiglia che l’aveva cresciuta, senza che nulla giustificasse questa violenza e quest’inganno. Questa bambina, come il caso precedente, aveva dei problemi di astinenza dovuti alla madre che purtroppo faceva uso di droghe. E questo vuol dire, per chi la prende in cura, un primo anno infernale, fatti di pianti e di notti insonni: pianti a cui qualcuno era sempre accorso, notti insonni che erano state condivise. La madre, in questi primi anni, aveva continuato a vederla, pur non essendo in grado di occuparsene. Il tribunale però aveva stabilito che doveva venire adottata da una giovane coppia senza figli che, secondo le parole del giudice, avrebbe accolto la bambina con un “tappeto d’oro”. Il tappeto d’oro era la rottura improvvisa e violenta con tutto quello che fino ad allora era stato il suo mondo affettivo. I genitori affidatari trattati, anche qui, come degli inaffidabili incompetenti, perché, anche in questo caso, non avevano capito che alla bambina dovevano dare solo da mangiare, vestirla e pulirla come una bambola, senza instaurare con lei alcun rapporto affettivo.
“Il vostro lavoro è stato pessimo” ha detto loro il giudice in tribunale. “Non dovevate consentire alla bambina di creare un legame affettivo con voi, come non dovevate permetterle di chiamarvi papà e mamma.”
Consiglio personalmente a questo punto ai giudici dei tribunali dei minori di instaurare una nuova normativa in cui i bambini cresciuti fin dalla nascita da una coppia affidataria imparino a chiamare l’uomo Numero Uno e la donna Numero Due e la coppia chiami da subito il bambino Numero Tre, così si eviteranno questi spiacevoli e nocive conseguenze del rapporto affettivo.
Ora queste due persone avevano avuto altri bambini in affido che poi erano andati in adozione. Il passaggio era stato lento e graduale, senza traumi, com’è giusto che sia e tutt’ora i ragazzi vanno a trovare la coppia diventata ormai una coppia di zii ma rimasta, comunque, nel patrimonio affettivo della loro infanzia. Perché in quest’ultimo caso tutto ciò non è stato permesso?
Che cosa c’è dietro? Sciatteria, ignoranza, menefreghismo o altri tipi di interessi? Perché la coppia che ha adottato si è rifiutata di collaborare nel rendere il distacco più armonico, graduale e, dunque, meno traumatico per la piccola? Si sono mai posti qualche domanda sul futuro della loro bambina? Su quanto questo rapimento – perché di questo si è trattato – incide e inciderà sul suo equilibrio di persona? Sono così poco lungimiranti da credere che il loro affetto sarà capace di far sparire come d’incanto i primi tre anni della sua vita? Nessuno ha mai detto loro che i primi tre anni costituiscono il vero fondamento della persona?
Questa bambina vivrà con un buco nero, un pozzo, una voragine dentro di sé, per tutta la vita in bilico su un gorgo di disperazione. In quel buco nero ci saranno le prime voci che ha sentito quando è venuta al mondo, le braccia che l’hanno cullata nelle notti di disperazione, le ninne nanne, le canzoncine, i sorrisi di chi, con amore, le stava sempre intorno, come il rumore di una strada, di un treno che magari passava lontano.
Tutto questo cancellato per sempre. Perché?
Non c’è una risposta. Almeno non c’è una risposta di buonsenso, di cose oneste che si comprendono.
Chi difende i bambini dalle leggi che dovrebbero difenderli?