Diritto all'alloggio e baraccopoli
Lunedì 3 ottobre si è celebrata la Giornata Mondiale del Diritto all’Aloggio ma l’emergenza abitativa è un problema più attuale che mai, in Italia e non solo. Abbiamo chiesto al dr. Sergio Bontempelli, impegnato da anni nella promozione dei diritti di rom e migranti, una riflessione sul diritto all’abitare e la segregazione degli “esclusi” al tempo delle baraccopoli.
Nel 1985 le Nazioni Unite hanno istituito il World Habitat Day – la “Giornata Mondiale del Diritto all’Alloggio” – indicando nel primo Lunedì di Ottobre la data in cui promuovere iniziative su queste tematiche: da allora, da quell’anno ormai lontano, la questione della marginalità abitativa è divenuta sempre più drammatica.
Secondo alcune stime esistono oggi, su scala globale, più di 200 mila insediamenti definibili come «slums», termine anglosassone che alcuni studiosi traducono come «baraccopoli»: in queste aree abitano complessivamente un miliardo di persone, un quinto della popolazione di tutto il mondo. Si tratta di cifre enormi, che ci restituiscono il quadro di un’economia globale caratterizzata da sempre più marcate disuguaglianze: in uno studio recentemente tradotto in italiano da Sonia Paone e Agostino Petrillo, il sociologo Loïc Wacquant sostiene che proprio la segregazione e la marginalizzazione degli «esclusi» rappresentano elementi costitutivi dell’attuale globalizzazione.
È in questo quadro ampio, internazionale e addirittura globale, che va collocato il fenomeno italiano dei campi nomadi. Certo, le differenze sono evidenti, ed è ovvio che – per così dire – non tutto è uguale a tutto: un insediamento di rom o di sinti nel Belpaese non è la stessa cosa di una favela brasiliana, di uno slum nigeriano o di una bidonville indiana o pakistana. Diverse sono le dimensioni (nel Sud del mondo le baraccopoli possono superare il milione di abitanti), diverse le storie, diverse – e non paragonabili – le dinamiche sociali, politiche ed economiche di ciascun contesto.
Eppure, pur tenendo conto di queste differenze, non si può non osservare come i campi italiani siano nati dalla volontà – più o meno esplicita – di isolare, marginalizzare e tenere sotto controllo gruppi ritenuti «diversi», e perciò potenzialmente pericolosi: come ben sanno i lettori di questo sito, i campi sono il prodotto non di una (presunta) «cultura rom», ma di precise scelte politiche delle amministrazioni nazionali e locali.
Oggi, a dispetto delle indicazioni dell’Unione Europea, le politiche di segregazione dei rom e dei sinti continuano, e si accompagnano a un’altra pratica, che si ritrova anch’essa nei contesti di marginalità urbana delle metropoli globali: gli sgomberi forzati.
Per questo, in occasione del World Habitat Day, è bene ricordare anche da noi quanto vanno dicendo da anni le organizzazioni e i movimenti impegnati nel diritto all’abitare, e quanto è stato a più riprese affermato dalle stesse Nazioni Unite: avere un alloggio dignitoso è un diritto fondamentale; nessuno deve essere segregato e marginalizzato; gli sgomberi sono illegittimi se non prevedono un’adeguata tutela del diritto alla casa delle persone da allontanare, e questo a prescindere dalla «legalità» degli insediamenti (il diritto ad avere una soluzione alternativa vale insomma anche quando si sgombera un campo cosiddetto «abusivo»).
Le obiezioni a questi ragionamenti sono sempre le stesse, e ci pare che abbiano fatto il loro tempo: «non ci sono soldi per tutti», «c’è la crisi», «vengono prima i nostri», e così via. È ormai dimostrato invece che le politiche di segregazione hanno costi altissimi, certamente superiori a quelli dell’inclusione; d’altra parte, da almeno tre decenni si pratica la marginalizzazione di gruppi percepiti come «diversi», e ciò non ha giovato – ci pare – alla tutela dei cittadini «italianissimi».
I Padri Costituenti ci hanno insegnato che un diritto è tale se vale per tutti: ed è fondamentale ricordarlo oggi.
di Sergio Bontempelli