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Ginevra e Maia: gemelline rom nel campo di Salone

Com’è la vita di un minore all’interno di un “campo rom” e quale futuro lo aspetta?
Attraverso l’esperienza di Ginevra e Maia, gemelline di due anni nate nel “campo” di via di Salone a Roma, la mamma Miriana racconta una storia di disagi, aspettative, paure e sogni per i suoi figli.

Quel pregiudizio che mi rende triste

Sulta è la matriarca della sua famiglia, ha 8 figli e 37 nipoti sparsi per il mondo. Si rattrista per l’atteggiamento discriminatorio che percepisce nei suoi confronti camminando per la strada: «Quando entro in un negozio vedo la gente mettere subito la mano al portafoglio: vorrei dire loro che non sono lì per rubare!». 
Sulta porta i segni degli anni sul volto, molti dei quali vissuti in Italia. Quando è arrivata, nel’75, all’epoca esisteva ancora la Jugoslavia, suo Paese di origine. Aveva già partorito tre figli e appena giunta qui è nata la quarta. Non sapeva ancora parlare la lingua e si è fatta tatuare sul polso l’anno di nascita della sua bambina.
Racconta che ad oggi solo quattro dei suoi otto figli sono rimasti in Italia, gli altri sono emigrati in Paesi diversi. Ha quasi perso il conto di tutti i suoi nipoti, che si moltiplicano considerando i figli di fratelli e sorelle, ma è un sollievo pensare che stanno tutti bene.
Della guerra in Jugoslavia sa poco o niente, l’ha vissuta da lontano e preferisce pensare alle persone che vivono in pace.
Guardando indietro verso il passato ricorda: «Tante volte siamo andati a dormire senza mangiare. Se andavo a chiedere l’elemosina mangiavamo, altrimenti no».
Eppure sente sempre gli sguardi addosso quando cammina per le strade della città, di occhi che la guardano con diffidenza e con la lente del pregiudizio: «Quando entro in un negozio vedo la gente mettere subito mano al portafoglio. Mi piacerebbe dire loro che non sono lì per rubare».

Rom contrari alla scolarizzazione? Mio figlio va all’università

I figli di Dzemila sono nati in un “campo”. Crescendo, la madre si è battuta perché frequentassero la scuola sin dall’asilo. Voleva che i suoi bambini avessero le stesse opportunità di tutti i loro coetanei. «C’è chi dice che le mamme rom non vogliono mandare i propri bambini a scuola, ma non è vero. Oggi mio figlio è iscritto all’università».
Dzemila è nata in Montenegro ma vive in Italia fin da quando aveva tre anni. È vissuta in diverse parti d’Italia ma poi si è stabilizzata a Roma dove ha vissuto nel grande “campo” Casilino 900. Qui è rimasta per ben 23 anni. Nel frattempo si è sposata e ha avuto dei figli. Suo marito è un non rom e, insieme, hanno deciso di continuare a vivere nel “campo” sia per manifestare solidarietà nei confronti degli altri abitanti, sia per dare una testimonianza agli occhi dei non rom, dimostrando che è possibile vivere in un “campo” lavorando onestamente.
È diffuso il pregiudizio nella società che le famiglie rom non vogliano mandare i figli a scuola per scelta. In realtà le difficoltà relative alla scolarizzazione di alcuni minori sono legate ad una serie di criticità riguardanti le condizioni di vita in cui versano le loro famiglie. Prima fra tutte la questione dell’alloggio. Chi vive in insediamenti informali è soggetto a continui spostamenti a causa degli sgomberi forzati durante i quali –oltretutto – vengono distrutti i pochi effetti personali posseduti, tra cui anche i libri scolastici.
Non è più semplice la situazione di quanti risiedono nei “campi” istituzionali, collocati in luoghi molto distanti dal tessuto urbano e quindi anche dagli istituti scolastici. Alcuni hanno raccontato di raggiungere il proprio istituto scolastico dopo due ore di viaggio già distrutti fisicamente. Dove invece sono predisposti i servizi di navetta, esclusivamente per bambini rom, i pullman sono molto spesso in ritardo e alcuni minori sono costretti a saltare la prima e l’ultima ora di lezione.
La povertà, l’esclusione sociale e la precarietà delle condizioni abitative hanno ripercussioni devastanti non solo sulle condizioni di vita ma anche sullo stato di salute fisica e psichica dei minori rom, influendo negativamente sulle possibilità di accesso all’istruzione e, spesso, sul rendimento scolastico stesso.
Molti dei bambini che barcamenandosi tra i tanti ostacoli continuano a frequentare la scuola, vivono una condizione di esclusione ed emarginazione dovuta alle loro origini o alla situazione di povertà. Un bambino che viene dal “campo” sarà sempre diverso agli occhi di compagni e insegnanti.
«Nonostante tutte le difficoltà i miei figli sono sempre andati a scuola. Tutti i giorni», riferisce Dzemila, e racconta di come successivamente a lei e la sua famiglia sia capitato di ricevere una bellissima opportunità, quella di diventare responsabili di un centro di accoglienza per rifugiati. «Si è aperto un nuovo capitolo della nostra vita», ricorda, «in cui eravamo noi a dare accoglienza piuttosto che essere accolti». Si parlavano cento lingue stando a contatto con altrettante culture diverse, si viveva nella condivisione con le altre persone della struttura in un contesto pieno di stimoli che ha contribuito all’arricchimento reciproco.
Ora uno dei suoi figli frequenta l’università e sta per laurearsi, l’altro vive a Berlino e lavora come attivista per progetti finalizzati alla tutela dei diritti umani. Non vivono più in un centro o in un “campo”, ma in una casa normale come tutti.
Tra le altre cose, oggi Dzemila si occupa dei processi di apprendimento e inserimento scolastico dei minori rom che vivono in condizioni di disagio. «Se alle persone dai un’opportunità, le porte e il futuro si aprono per tutti. Anche per i rom che oggi vivono ai margini».

Vivere in un campo rom non è un privilegio: è una condanna

«Era il mese di gennaio del 2010. Faceva molto freddo. Vennero all’improvviso, al mattino. C’erano i vigili e le ruspe. Avevamo poco tempo e non siamo riusciti a prendere tutte le nostre cose. Non sapevo dove ci avrebbero portati. A me e ai miei nove figli. “Dove mi porti, mamma?”, continuava a ripetermi il mio bambino».
Shida ricorda i giorni dello sgombero del Casilino 900, il “campo rom” storico nella periferia orientale di Roma, abitato da famiglie rom già dalla fine degli anni Sessanta, mentre nel decennio prima ospitava gli sfollati della Seconda Guerra Mondiale.
Prima dello sgombero ci vivevano oltre 600 persone, di cui quasi la metà minori, di origine bosniaca, montenegrina, macedone, serba, croata e kosovara. Vi erano anche cittadini italiani. Sulla promessa di sgomberare l’insediamento, in nome della sicurezza e della legalità, si giocò la partita elettorale tra i due candidati a sindaco della Capitale: Francesco Rutelli e Gianni Alemanno.
Ebbe la meglio quest’ultimo che procedette così all’abbattimento delle abitazioni delle famiglie del Casilino 900.
«Il sindaco e i suoi uomini ci avevano promesso una sistemazione migliore. Ci dissero che avremmo finalmente potuto abitare in case normali. Ci hanno ingannati per farci uscire con le buone», racconta Shida, che è originaria del Montenegro.
Dopo lo sgombero, la donna e la sua famiglia furono trasferite nel “villaggio attrezzato” di via di Salone. Doveva essere una sistemazione temporanea, secondo le promesse delle autorità.
«Invece sono passati quasi sei anni e siamo ancora qui – racconta Shida, lo sguardo dimesso – Viviamo in un container, ammassati gli uni agli altri perché lo spazio è insufficiente. Ricordo ancora che quando arrivammo per la prima volta in questo “campo” avevo la sensazione di aver messo piede in un altro paese. Era così triste, orribile, deprimente. L’unica speranza era solo quella di doverci restare poco. E invece…».
Il “villaggio attrezzato” di Salone è uno dei sette presenti oggi a Roma. L’Italia è l’unico Paese in Europa dove le istituzioni creano e gestiscono “campi per soli rom”. Nella Capitale, nel 2013, sono stati spesi oltre 24 milioni di euro per mantenere in piedi il “sistema campi”. Più volte, nel corso degli anni, il nostro Paese è stato richiamato dagli organismi internazionali sulla politica dei campi, ghettizzante e discriminatoria su base etnica. Nel 2012, l’Italia si è impegnata per il superamento di questi luoghi e nell’attuazione di percorsi di inclusione sociale.
«Siamo in Italia da 30 anni e abbiamo sempre vissuto nei campi. I campi esistono solo qui. Nella loro vita i miei figli non hanno vissuto nient’altro che la realtà dei campi. Questo è il pensiero che più mi assilla, da madre. Vorrei che i mei figli avessero una vita normale», continua Shida.
«Qui è pieno di topi, i sistemi di fognature non funzionano e le condizioni igieniche e sanitarie sono al limite dell’umano. E poi siamo lontani da tutto e da tutti. L’ospedale e il supermercato sono molto distanti e ci sentiamo esclusi dal resto della società. Almeno quando eravamo a Casilino 900 avevamo tanti amici nel quartiere, eravamo integrati e i bambini andavano a scuola con facilità», conclude Shida che poi dice che la cosa che le fa più male è «quando sento la gente o i politici dire che i rom nei campi sono pieni di privilegi. Vivere in un campo rom non è un privilegio, semmai è una condanna».

Basta parlarsi per sgretolare i pregiudizi

Miriana è una donna estroversa e le piace stare a contatto con le persone. “Quando racconto la mia storia agli altri, vedo che i loro cuori si aprono e tutti i pregiudizi si sgretolano”.
Miriana è sposata e ha quattro figli, due maschi grandi e due gemelline di due anni. Adesso è mamma a tempo pieno ma ha tanta voglia di rimettersi in gioco e ricominciare a lavorare.
Le sue bambine sono ancora piccole ma l’anno prossimo spera di metterle all’asilo e trovare un lavoro. Purtroppo sa che non è facile perché nella sua vita ha subìto spesso discriminazioni proprio sul lavoro. Quando aveva quindici anni ha lavorato in un negozio di articoli sportivi e dopo un mese l’hanno pagata regalandole un paio di scarpe e una tuta da ginnastica. Una volta le è capitato di fare un colloquio per un impiego di commessa in profumeria, “mi sarebbe piaciuto tanto” – ricorda – ma quando le hanno chiesto dove abitava, alla risposta “Casilino 900” l’hanno congedata con un poco promettente “vedremo”.
Miriana sente addosso i pregiudizi delle persone, ma è stufa degli stereotipi che etichettano il suo popolo. “Dicono che rubiamo i bambini, ma noi abbiamo tutti famiglie numerose; perché dovremmo prendere i bambini degli altri?”. A un bambino che le chiede il motivo per cui i genitori raccontano questa storia pur essendo falsa, Miriana risponde che è un modo come un altro per far capire ai figli che è pericoloso allontanarsi senza permesso.
Un giorno le è capitato di ascoltare una madre che raccontava al proprio bambino che i rom rubano i bambini. Sentendosi ferita non è riuscita a contenere l’irritazione e si è arrabbiata per l’educazione che quella donna stava dando a suo figlio, “anche i negozianti mi hanno appoggiata e si sono preoccupati per l’offesa che avevo ricevuto”.
Oggi Miriana vive in un “campo”, ma spera di uscirne presto augurandosi – per sé e la sua famiglia – un futuro migliore.

«Sei nomade se ti sposti, ma io sono sempre stata qua»

Monica è figlia di genitori montenegrini. Lei è nata a Roma, al “Casilino 900”, oggi vive da sola nel “campo rom” di Salone ed è mamma di due figli di quattro e sei anni. Non si è mai spostata dall’Italia e soffre del pregiudizio secondo cui quella dei rom sarebbe una popolazione senza fissa dimora: «Non siamo nomadi. Io sono sempre stata qui».
Quando ha saputo che sua figlia aveva partecipato alla recita scolastica senza essere stata avvisata, Monica ha sofferto molto. È andata a scuola per chiedere spiegazioni e l’insegnante, stupita, si è scusata dicendo che non credeva le potesse interessare in quanto rom, quindi nomade. «Le ho fatto capire che io ci tengo e da quel giorno mi ha sempre avvisato» – racconta con un ampio sorriso – «lo scorso Natale ho assistito per la prima volta alla recita di mia figlia, interpretava il ruolo di asinello per il presepe vivente. È stata un’esperienza bellissima, mi sono commossa e sono stata bene insieme a tutte le altre mamme».
Secondo i dati disponibili sul tema, oggi solo il 3% della popolazione rom presente in Italia è nomade, prevalentemente per svolgere attività lavorative stagionali.
Il falso mito legato al presunto nomadismo dei rom nasce da un equivoco di fondo: storicamente, infatti, più che di una scelta di vita per molti si è trattato di diaspora, fuga dalle guerre o, appunto, esercizio di attività lavorative che richiedevano continui spostamenti. Proprio in relazione a questo presupposto nomadismo, fin dagli anni ’80 si sono applicate negli anni misure discriminatorie che hanno portato fino alla “politica dei campi rom”.
L’istituzionalizzazione dei campi ha di fatto prodotto, attraverso la ghettizzazione e la segregazione di uomini e donne in base alla propria etnia, un vero e proprio razzismo di stato. L’equivoco sul nomadismo e la presunta necessità di vivere nei “campi” o in aree attrezzate è oltretutto completamente infondato: solo un quarto della popolazione rom presente in Italia vive nei “campi”, tutti gli altri hanno una casa, emblema incontrastabile della “fissa dimora”.
«Sei nomade se ti sposti, ma io sono sempre stata qua», racconta Monica con amarezza. Nata e cresciuta nel grande “campo” informale del “Casilino”, collocato nel quartiere omonimo da cui prende il nome, dopo il passaggio delle ruspe che hanno portato allo sgombero forzato degli abitanti, Monica è stata trasferita nel campo di Salone, dove vive attualmente con i suoi figli. Nonostante sia effettivamente italiana, è apolide di fatto e non ha i documenti. Senza cittadinanza né permesso di soggiorno, oltre alle difficoltà per ottenere un lavoro o l’assistenza sanitaria, ha avuto problemi anche per la registrazione dei figli all’anagrafe.
In Montenegro, il paese che secondo la legge dovrebbe darle i documenti, non ci è mai stata e non ha nessuna intenzione di andarci. La sua vita l’ha costruita in Italia e vuole continuare a viverla qui. Non conosce la lingua montenegrina e quando le è capitato di ascoltare la musica originaria del paese dei suoi genitori, ha chiesto di farsi tradurre il testo. Vivere in un “campo” e senza documenti per lei, come per molti altri che vivono nelle sue stesse condizioni, è una privazione dell’identità oltre che una discriminazione: «sento che è come se non esistessi», confida.
Per Monica il confronto con l’esterno è molto importante, per questo l’esperienza a scuola di sua figlia è stata fondamentale. Ha conosciuto le mamme delle altre bambine, si è rapportata con loro e si è sentita parte di una comunità. È stato motivo di soddisfazione anche avere l’opportunità di mostrare, attraverso la sua esperienza, un’immagine lontana dagli stereotipi con cui i rom vengono normalmente etichettati.

Chef per i diritti umani

Sabrina è una giovane attivista rom, vive in Sardegna e sogna di diventare chef. “La mia più grande passione è la cucina. Ho studiato per diventare cuoca e cerco di combattere gli stereotipi sul mio popolo”.
Mentre controlla la cottura della pasta e mescola la salsa, Sabrina racconta la sua storia. Ha frequentato un corso per chef che l’ha arricchita di conoscenze, ha scoperto trucchi e segreti degli alimenti che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni ma di cui spesso ignoriamo i composti. “È divertente”, confida Sabrina, “ora ad esempio so come è fatto il lievito”.
La passione per la cucina ce l’ha fin da piccola e le è stata trasmessa dalla madre. Ha imparato osservandola giorno dopo giorno, guardando con l’occhio e lavorando con la mente perché la fantasia, ricorda, è un ingrediente fondamentale quando si prepara qualunque tipo di pietanza. Piano piano ha cominciato anche a mettersi alla prova e a sperimentare, poi crescendo ha deciso di farne il suo mestiere.
Al termine del corso ha praticato l’apprendistato in una struttura di Roma convenzionata con la scuola e a conclusione del suo percorso ha superato l’esame finale. Racconta tutto con molto entusiasmo e la considera un’esperienza unica, estremamente formativa sia dal punto di vista professionale sia umano.
Accanto alla passione per la cucina, per Sabrina c’è anche la dedizione all’attivismo in difesa dei diritti umani. In particolare si dedica all’abbattimento degli stereotipi e delle discriminazioni nei confronti del suo popolo. “Sono rom e sono italiana, come tutti gli altri sono stanca di sentire tutti i pregiudizi che vengono diffusi su di noi”.
Con una sua amica assistente sociale Sabrina ha collaborato con le scuole per portare la sua testimonianza, perché “la conoscenza è fondamentale per abbattere i pregiudizi e nelle scuole c’è il futuro del nostro Paese” spiega. “I bambini e i ragazzi mi facevano domande da cui si capiva che nel proprio immaginario le persone vedono i rom come un popolo completamente diverso, lontano, e invece non è così. Si stupivano anche solo per il fatto che ero vestita come tutti gli altri”.
Racconta che uscendo da questi incontri aveva sempre il sorriso stampato in viso perché sentiva di aver dato il proprio contributo lasciando un messaggio importante.

«Mi dicono “Tornatene al Paese tuo”. Ma io sono nata qui»

Brenda ha 22 anni. È nata a Roma da genitori montenegrini. È cresciuta nella Capitale e da lì non si è mai spostata. Ma non ha la cittadinanza italiana e per molto tempo non ha avuto nessun documento tra le mani.
Brenda non è la sola in questa situazione. Sono molto comuni, in Italia, i casi di persone rom senza documenti, che vivono da apolidi di fatto, in una condizione di limbo giuridico. La loro è una vita da invisibili: senza documenti non si può lavorare regolarmente, non si ha diritto all’assistenza sanitaria, non ci si può sposare, non si può votare, non si può viaggiare. Le stime parlano di 15 mila minori apolidi di fatto o a rischio apolidia nel nostro Paese.
Solo un anno fa Brenda ha ottenuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari, un permesso che solitamente si concede a persone fuggite dal loro Paese in cerca di protezione internazionale.
«Mi sento italiana al 100%, parlo l’italiano e ho sempre vissuto qui. Eppure non vengo considerata una cittadina dallo Stato e per evitare il rischio di essere espulsa ho dovuto chiedere il permesso per motivi umanitari, come avviene per coloro che scappano dalle guerre», racconta Brenda.
Con il nuovo permesso, Brenda potrà lavorare regolarmente e ha potuto chiedere per la prima volta anche il titolo di viaggio. Tuttavia, questo tipo di permesso è temporaneo e di solito può essere rinnovato non più di due, tre volte. Il permesso umanitario, inoltre, non le permette di richiedere la cittadinanza. Potrà farlo soltanto dopo tre anni di residenza legale in Italia e con dei requisiti di reddito minimo di oltre 8 mila euro.
Quella dell’invisibilità giuridica è una condizione che i giovani rom ereditano dai propri genitori. La madre e il padre di Brenda, per esempio, sono apolidi di fatto. Oltre a non avere la cittadinanza italiana, infatti, non hanno neanche quella del Montenegro perché non risultano iscritti ai registri anagrafici della città montenegrina nella quale sono nati. È come se non esistessero. Né per l’Italia, né per il Montenegro.
Per evitare il rischio dell’invisibilità, è opportuno che i genitori dei minori provvedano a regolarizzare la loro posizione e quella dei propri figli. Se ciò non dovesse essere possibile, invece, è fondamentale che i giovani rom, non appena compiuto il diciottesimo anno di età, richiedano il permesso di soggiorno e il titolo di viaggio. Successivamente, per diventare cittadini italiani dovrebbero richiedere la cittadinanza prima del compimento dei 19 anni.
Molto spesso, purtroppo, sono gli stessi genitori a non essere a conoscenza dei diritti dei loro figli e a non avere informazioni corrette su questi temi. Non sono rari, ad esempio, i casi di genitori che non iscrivono i propri bambini ai registri di nascita e cittadinanza nei Paesi d’origine credendo, erroneamente, che in questo modo potranno vedersi facilmente riconosciuto lo status di apolide.
Anche Brenda, pur essendo nata e cresciuta a Roma, si è trovata in questa condizione.
«Così è come se non fossi un’italiana vera. Come se non fossi cittadina di nessun Paese. Anche se i miei genitori vengono dal Montenegro, io là non ci ho mai messo piede in vita mia. Non conosco neanche la lingua e se mi capita di ascoltare una canzone montenegrina, devo chiedere agli altri il significato delle parole», spiega Brenda.
«Una volta in un parco un signore mi ha detto: ‘Se io fossi il Presidente della Repubblica manderei subito tutti i rom al loro Paese’. Gli ho detto: ‘Io sono nata e cresciuta in Italia, dove dovrei andare?’ Lui si è messo a ridere e poi abbiamo iniziato a chiacchierare amichevolmente», racconta con un sorriso amaro, che però basta a illuminarle il volto.

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