Vivere in un campo rom non è un privilegio: è una condanna
«Era il mese di gennaio del 2010. Faceva molto freddo. Vennero all’improvviso, al mattino. C’erano i vigili e le ruspe. Avevamo poco tempo e non siamo riusciti a prendere tutte le nostre cose. Non sapevo dove ci avrebbero portati. A me e ai miei nove figli. “Dove mi porti, mamma?”, continuava a ripetermi il mio bambino».
Shida ricorda i giorni dello sgombero del Casilino 900, il “campo rom” storico nella periferia orientale di Roma, abitato da famiglie rom già dalla fine degli anni Sessanta, mentre nel decennio prima ospitava gli sfollati della Seconda Guerra Mondiale.
Prima dello sgombero ci vivevano oltre 600 persone, di cui quasi la metà minori, di origine bosniaca, montenegrina, macedone, serba, croata e kosovara. Vi erano anche cittadini italiani. Sulla promessa di sgomberare l’insediamento, in nome della sicurezza e della legalità, si giocò la partita elettorale tra i due candidati a sindaco della Capitale: Francesco Rutelli e Gianni Alemanno.
Ebbe la meglio quest’ultimo che procedette così all’abbattimento delle abitazioni delle famiglie del Casilino 900.
«Il sindaco e i suoi uomini ci avevano promesso una sistemazione migliore. Ci dissero che avremmo finalmente potuto abitare in case normali. Ci hanno ingannati per farci uscire con le buone», racconta Shida, che è originaria del Montenegro.
Dopo lo sgombero, la donna e la sua famiglia furono trasferite nel “villaggio attrezzato” di via di Salone. Doveva essere una sistemazione temporanea, secondo le promesse delle autorità.
«Invece sono passati quasi sei anni e siamo ancora qui – racconta Shida, lo sguardo dimesso – Viviamo in un container, ammassati gli uni agli altri perché lo spazio è insufficiente. Ricordo ancora che quando arrivammo per la prima volta in questo “campo” avevo la sensazione di aver messo piede in un altro paese. Era così triste, orribile, deprimente. L’unica speranza era solo quella di doverci restare poco. E invece…».
Il “villaggio attrezzato” di Salone è uno dei sette presenti oggi a Roma. L’Italia è l’unico Paese in Europa dove le istituzioni creano e gestiscono “campi per soli rom”. Nella Capitale, nel 2013, sono stati spesi oltre 24 milioni di euro per mantenere in piedi il “sistema campi”. Più volte, nel corso degli anni, il nostro Paese è stato richiamato dagli organismi internazionali sulla politica dei campi, ghettizzante e discriminatoria su base etnica. Nel 2012, l’Italia si è impegnata per il superamento di questi luoghi e nell’attuazione di percorsi di inclusione sociale.
«Siamo in Italia da 30 anni e abbiamo sempre vissuto nei campi. I campi esistono solo qui. Nella loro vita i miei figli non hanno vissuto nient’altro che la realtà dei campi. Questo è il pensiero che più mi assilla, da madre. Vorrei che i mei figli avessero una vita normale», continua Shida.
«Qui è pieno di topi, i sistemi di fognature non funzionano e le condizioni igieniche e sanitarie sono al limite dell’umano. E poi siamo lontani da tutto e da tutti. L’ospedale e il supermercato sono molto distanti e ci sentiamo esclusi dal resto della società. Almeno quando eravamo a Casilino 900 avevamo tanti amici nel quartiere, eravamo integrati e i bambini andavano a scuola con facilità», conclude Shida che poi dice che la cosa che le fa più male è «quando sento la gente o i politici dire che i rom nei campi sono pieni di privilegi. Vivere in un campo rom non è un privilegio, semmai è una condanna».