REYN – Fuori dal mondo, la storia di Senada
di Hyrmet Dibran (Articolo 34)
Spesso si sente dire che i campi rom permettono di mantenere e “proteggere” la cultura nomade e che sono il modo in cui i rom vogliono vivere, cosa che può anche sembrare generoso da parte di chi fa queste affermazioni. Eppure quasi nessuno presta attenzione ai danni sociali e umani che può creare il vivere in un campo a una persona. Per questo ho voluto fare un’intervista a una madre rom che ha vissuto in un campo gran parte della vita e che poi è riuscita a trasferirsi in una casa in città, per capire che effetto ha avuto questo cambiamento sulla sua vita.
Senada* è una donna, madre di quattro figli di 9, 10, 11 e 15 anni. Ha vissuto in un campo rom da quando è venuta in Italia all’età di 8 anni, ora ne ha 37 e da 6 anni abita in un appartamento procurato dai servizi sociali.
Come era una tua giornata tipo, quando vivevi nel campo?
“Lavavo e pulivo la baracca, non avevo un lavoro né i documenti, vivevamo alla giornata ed era mio marito a occuparsi di portare a casa la cena. Non avevo una routine tranquilla e regolare, in più al campo c’era molto gossip, tutti sapevano tutto di te e tu tutto di loro, ognuno aveva da ridire. I miei figli erano sempre sporchi di fango per via delle pozze di pioggia e della sabbia. Al campo facevo fatica a lavarli e lavare i loro vestiti, poiché mancava l’acqua e l’elettricità, non solo a me ma a tutti gli abitanti del campo. Passavo giorni interi a scaldare l’acqua nel pentolone e a lavarli a mano. I miei figli per 4 anni, quando abitavamo a Tirrenia, non hanno frequentato la scuola, lo scuolabus non passava dal campo. Poi però quando assistenti sociali, educatori o forze dell’ordine venivano a farci visita mi sentivo dire che ero io a non voler mandare i bambini a scuola, e mi hanno anche denunciato, anche se sapevano della mancanza del servizio del bus, che era stato tolto proprio dal Comune. Per questo i bambini non potevano studiare ma nemmeno farsi degli amici italiani.”
Come è la tua giornata tipo nella casa in cui vivi ora ?
“È da sei anni che non vivo più al campo, ora abito in una casa, il proprietario che ci ha accettato per primo è stato molto gentile e comprensivo, sapeva anche che sono rom. Sono riuscita ad avere questa casa grazie all’aiuto dell’Associazione Articolo 34 di Pisa, che mi ha seguita in quel momento difficile e tutt’ora sta seguendo i miei bambini per l’istruzione. Il proprietario mi aveva dato anche un lavoretto, andavo a fare le pulizie a casa sua, anche perchè nel frattempo mi ero separata dal mio ex-marito e avevo bisogno di mantenere i miei bambini, mi piaceva molto l’idea di avere un lavoro, anche se ci andavo poche ore. Non è facile nemmeno ora trovare un lavoro stabile, è quello che mi manca di più. Non avevo mai avuto i documenti ma, piano piano, sono riuscita a metterli a posto, e anche i bimbi hanno fatto i vaccini, hanno il dottore e hanno curato i denti.
Lo scorso anno abbiamo cambiato casa, adesso io e i miei figli abbiamo una routine, ci hanno anche aiutato durante il Covid anche se è stato difficile. I bimbi vanno a scuola tutti i giorni e ora che è estate andranno ai campi solari. In più hanno tanti amici italiani, quasi non frequentano più i bambini rom del campo. Abitare in una casa fuori dal campo mi ha portata a vedere il mondo vero, in tutti i suoi aspetti. Quest’anno ho anche fatto qualche lezione di italiano, per imparare a scrivere e a leggere e mi piacerebbe trovare un lavoro vero e prendere la patente. Io al campo non vorrei proprio tornare, anche quando me lo hanno proposto ho rifiutato.”
Ascoltando Senada, rifletto, chiedendomi se davvero i gagè (persone non rom), quando pensano al campo come una forma di protezione per la cultura rom, sono onesti o lo dicono solo perché temono persone diverse da loro o
addirittura se le preferiscono ai margini, ritenendole un corpo estraneo della società, un pericolo.
Non capisco come le persone possano definire quella che è una forma socialmente accettata di segregazione e ghettizzazione, che permette di lasciare degli individui fuori dal mondo, come una sorta di “protezione culturale”.
Qualcuno ha mai pensato se davvero i campi possono essere utili per proteggere la cultura rom? D’altra parte la coerenza non è proprio il massimo quando si parla di rom… infatti ci sono anche sempre pronte delle ruspe a buttare giù delle povere dimore e rigettare per strada, senza nulla, le persone che ci abitano… Ah, forse anche questo fa parte della protezione culturale dei rom, per mantenere viva la cultura nomade. Del resto di recente una becera politica, che prende molti voti grazie alla sua demagogia sulla pelle degli ultimi, ha sostenuto in TV: “Sei nomade? Allora devi nomadare!”
*(nome di fantasia)