Le notizie sugli "zingari" lette da tre donne rom

Dzemila Salkanovic, Gladiola Lacatus e Sabrina Milanovic, donne rom impegnate all’interno dell’Associazione 21 luglio, raccontano cosa provano di fronte a quei titoli e notizie di giornale che, ripetutamente, diffondono e alimentano un’immagine indistintamente negativa e fortemente stigmatizzante delle comunità rom e sinte.
Da giugno a settembre 2014, come riportato in una lettera pubblica dell’Associazione 21 luglio al direttore de “Il Tempo” Gian Marco Chiocci, il quotidiano romano si è reso artefice di una sistematica campagna di presunte inchieste giornalistiche con target specifico le comunità rom e sinte a Roma.
 

Tra i rom vittime dello sgombero forzato

Cristian* ha appena 4 mesi e ha già vissuto sulla sua pelle due sgomberi forzati. Insieme ad altre 38 persone, tra cui bambini e malati, Cristian fa parte dei rom che il 9 luglio scorso sono stati sgomberati da un insediamento informale in zona Val d’Ala, periferia nord-est della Capitale.
Poco prima della mezzanotte di venerdì 11 luglio, tra le braccia della mamma, Cristian è potuto finalmente salire sull’autobus messo a disposizione dal Comune di Roma che avrebbe portato i rom sgomberati in una struttura di accoglienza temporanea. Per Cristian e gli altri rom voleva dire scongiurare il rischio di un’altra notte all’addiaccio.
Si è conclusa così positivamente, dopo tre giorni di trattative intense con le autorità locali di Roma Capitale, la vicenda dello sgombero forzato di Val d’Ala, uno sgombero che Associazione 21 luglio e Amnesty International hanno denunciato pubblicamente perché in violazione dei diritti umani e degli standard internazionali.
Maria*, 23 anni, è una delle giovani donne vittime dello sgombero: «Negli ultimi anni io e la mia famiglia siamo stati sgomberati molte volte, anche a brevissima distanza di tempo. Arriva la polizia, ci distrugge la baracca, ci distrugge la tenda, ci distrugge i materassi. Tutto. E noi restiamo senza nulla, senza avere la minima idea di che fine faremo, proprio come oggi», ha raccontato Maria il giorno dello sgombero del 9 luglio.
«Non sono riuscita neanche a prendere i miei vestiti. Li ho persi per via dello sgombero e ora ho solo quelli che indosso», si è sfogata, allo stesso modo, Anna*, anche lei 23enne.
Subito dopo essere stati allontanati dall’insediamento informale dove vivevano, i rom, nel tentativo di chiedere alle istituzioni romane una soluzione, si sono spostati sotto la sede del Dipartimento alle Politiche Sociali del Comune di Roma, in pieno centro della Capitale. In qui momenti, con loro, c’erano anche gli attivisti di Associazione 21 luglio e Amnesty International che hanno supportato le persone sgomberate anche attraverso la distribuzione di generi alimentari.
Tra i rom, quel giorno, c’era anche Camelia, madre di una delle ragazze allontanate da Val d’Ala. Camelia vive attualmente in una struttura d’accoglienza per soli rom a Roma ma, saputo dello sgombero, si è subito recata sul posto per stare vicino a sua figlia e, soprattutto, ai suoi nipotini di 8 mesi e 2 anni.
Fino a qualche mese fa anche la figlia di Camelia viveva nella stessa struttura d’accoglienza con la madre. Da quel centro, però, è stata allontanata, assieme al marito e ai bambini. «Il motivo? Si è assentata dalla struttura pochi giorni oltre il dovuto. Per questo è stata mandata via e, da un giorno all’altro, si è ritrovata per strada», ci ha spiegato la donna.

sgombero rom

Camelia si prende cura della sua nipotina appena sgomberata


Camelia, rumena come tutti i 39 rom sgomberati a Val d’Ala, ha 33 anni e vive in Italia da 10. È madre di quattro figli e anche lei, nella sua vita, ha dovuto affrontare il trauma dello sgombero forzato.
«Ricordo ancora che quando le forze dell’ordine hanno distrutto le nostre case sembrava che non avessero nessuna preoccupazione per noi – ha spiegato la donna mentre si prendeva cura della nipotina appena sgomberata – Poi, a un tratto, hanno trovato dei gattini. E per salvare i gattini si sono prodigati tantissimo. E lo reputo giusto. Ma per me che avevo in braccio mia figlia appena nata nessuno ha mostrato compassione e si è preoccupato di lasciarci senza un tetto sopra la testa».
Camelia ci ha raccontato di aver lasciato la Romania per l’Italia per dare un futuro migliore ai propri figli. «Nel mio Paese non avevamo alcuna possibilità. Vivevamo nella povertà assoluta. Un mio nipotino è morto perché non aveva da mangiare», ci ha raccontato.
«Anche qui a Roma è molto dura e l’unico lavoro che i rom riescono a fare è quello di raccogliere il ferro. Ma io vorrei fare un lavoro normale, come tutti i cittadini italiani. Ma ci sentiamo discriminati e la gente continua a dirci che siamo zingari. Senza darci nessuna possibilità».
* Nome di fantasia

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Sabrina: "Noi rom non siamo come ci dipingono i media"

Sabrina, 23 anni, vive nel "campo rom" di San Nicolò d'Arcidano, in Sardegna

Sabrina, 23 anni, vive nel “campo rom” di San Nicolò d’Arcidano, in Sardegna


[tfg_social_share]Sabrina Milanovic ha 23 anni, è italiana e vive in un “campo rom” a San Nicolò d’Arcidano, in provincia di Oristano, in Sardegna. È stanca dei pregiudizi e degli stereotipi negativi diffusi nei confronti della sua comunità e vorrebbe impegnarsi per promuovere e valorizzare i diritti dei rom nella sua cittadina e nel resto d’Italia.
«Noi rom veniamo continuamente discriminati e questo succede non perché la gente sia cattiva o in malafede. Ma semplicemente perché non ci conosce e di noi sa solo le cose brutte che scrivono i giornali. Ma noi non siamo come ci dipingono i media e non è giusto che per colpa di alcuni a subirne le conseguenze debbano essere tutti i rom»
Dallo scorso ottobre Sabrina frequenta il Corso di formazione per attivisti rom e sinti organizzato dall’Associazione 21 luglio e dal Centro Europeo per i Diritti dei Rom (ERRC).
«Io voglio fare qualcosa in prima persona per combattere contro i pregiudizi nei confronti del mio popolo, per affermare i nostri diritti e per promuovere un’immagine differente di noi».
A San Nicolò d’Arcidano, la comunità rom è costituita da circa un centinaio di persone, il 3,5% della popolazione totale, composta da 2.800 abitanti. Dal 2011 i rom vivono in un nuovo “campo” dopo che un incendio aveva distrutto l’insediamento provvisorio in cui viveva la comunità.
Sabrina non vorrebbe vivere in un “campo” ma in una casa come ogni altro cittadino italiano.
«Vivere in un campo vuol dire vivere la vita in maniera amplificata. Le casette sono tutte attaccate e non hai un minimo di privacy».
Nel “campo” di San Nicolò d’Arcidano, “campo” realizzato dal Comune, gli abitanti rom vivono in baracche di 40 mq ciascuna all’interno delle quali, in alcuni casi, arrivano a dividere lo spazio anche 11 persone.
Secondo il Comitato per la Prevenzione della Tortura, istituito dal Consiglio d’Europa, lo spazio minimo nelle celle per ogni detenuto dovrebbe essere di 7 mq, cioè il doppio dello spazio a disposizione di alcuni residenti rom nel “campo” in provincia di Oristano.
Per Sabrina la strada per rafforzare i diritti delle comunità rom passa attraverso il lavoro.
«Bisogna che anche i rom abbiano opportunità lavorative. Questo servirà a combattere i pregiudizi, a favorire l’integrazione e il vivere insieme. In questo modo potremo non essere più giudicati per quello che non siamo».
L’appello
Nell’ambito della Campagna “Stop all’apartheid dei Rom!“, l’Associazione 21 luglio ha lanciato un appello nazionale con raccolta firme, rivolto ad otto Presidenti di Regione, per chiedere l’abrogazione delle Leggi regionali che istituiscono i “campi nomadi” in Italia, ghetti che alimentano la segregazione delle comunità rom e sinte e rendono impossibile l’inclusione sociale. Tra le regioni considerate figura anche la Sardegna. Per firmare l’appello “Inclusione per le comunità rom e sinte in Italia” clicca qui

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Giovani attivisti rom e sinti: le video-testimonianze

Ha preso il via il Corso di formazione per attivisti rom e sinti organizzato da Associazione 21 luglio e dal Centro Europeo per i Diritti dei Rom (ERRC). I giovani partecipanti spiegano perché hanno scelto di aderire all’iniziativa e di impegnarsi per i diritti umani delle proprie comunità.
I ragazzi e le ragazze che si sono presentati al primo dei sei appuntamenti previsti dal Corso sono arrivati da varie regioni e città italiane. Tra di loro Sead Dobreva, 31 anni, rom arrivato in Italia nel 1991 in fuga dai tumulti nella ex Iugoslavia:
«Quando ho saputo di questo corso ho pensato che per me potesse essere una buona opportunità per fare finalmente qualcosa per il mio popolo», spiega Sead, che vive a Rovigo «in una casa» – come ci tiene a sottolineare – e che lavora come operaio in una fabbrica dove è anche rappresentante sindacale.
 

 
Gladiola Lacramioara Lacatus, 20 anni, viene dalla Romania e da sei anni vive a Cosenza. Per alcuni mesi ha vissuto in un campo rom; ora è in una casa famiglia per minori e frequenta la scuola superiore: «Ho scelto di fare questo corso per avere la formazione adatta per aiutare, successivamente, gli altri ragazzi che come me hanno incontrato difficoltà nell’integrarsi nella società».
Gladiola è una delle sette ragazze che hanno partecipato al primo incontro del corso. Un tasso di partecipazione femminile molto, che ha reso felici gli organizzatori dell’iniziativa.
Come lei, anche Naomi Ahmetovic, rom/sinta di 18 anni che vive a Trieste, ha deciso di immergersi nella teoria e nella pratica dei diritti umani. «In questo modo saprò riconoscere le violazioni dei diritti umani e potrò battermi perché i diritti della mia comunità vengano rispettati», racconta Naomi.
Il Corso di formazione
Il Corso di formazione per attivisti rom e sinti, promosso da Associazione 21 luglio e ERRC, rientra tra le attività della Campagna “STOP all’apartheid dei Rom!“, lanciata dall’Associazione lo scorso ottobre.
Francesca Colombo, responsabile Campagne dell’Associazione 21 luglio, spiega il senso dell’iniziativa:
«L’obiettivo è quello di dar vita a un attivismo giovanile tra le comunità rom e sinte in Italia. Forniamo ai ragazzi e le ragazze una serie di strumenti che riguardano i loro diritti umani in modo tale che essi stessi possano rivendicarli e farli conoscere alle proprie comunità. È importante che siano essi stessi ad agire in prima persona».
 

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I rom scrivono a Marino: «Ci aiuti a uscire dai ghetti»

In una lettera inviata al sindaco di Roma Ignazio Marino, la comunità rom insediata dallo scorso giugno in via Salviati, nella periferia est della Capitale, chiede di non essere più costretta a vivere nei “campi” e di iniziare nuovi percorsi condivisi di inclusione sociale.
Per l’Associazione 21 luglio, l’appello rappresenta la possibilità, per Roma, di mettere in atto quelle nuove politiche di integrazione previste dalla “Strategia Nazionale di Inclusione dei Rom, Sinti e Camminanti”, adottata dall’Italia nel 2012.
«Caro sindaco, siamo e ci sentiamo cittadini di questa città, dove viviamo da trent’anni – si legge in uno dei passaggi chiave della lettera, che porta la firma di Sandor Dragan Trajlovic, portavoce della comunità -. Siamo orgogliosi di essere cittadini italiani e cittadini d’Europa. Siamo cittadini rom che credono nell’inclusione e che sognano di poter avere piena cittadinanza in questa bella città. Per questo le chiediamo di ascoltare il nostro desiderio di essere cittadini come gli altri, senza discriminazione e senza ghettizzazione». (Guarda il video dell’appello)
Lo scorso giugno i 152 rom che attualmente si trovano nell’insediamento informale di via Salviati sono fuggiti dal “villaggio attrezzato” di Castel Romano, dove vivevano dal 2010, in seguito a ripetuti episodi di violenza da parte di altri abitanti del “campo”.
«Vivere nel campo ci fa sentire come all’interno di un ghetto, riservato a 1300 rom – scrive al sindaco la comunità -. Si, il campo di Castel Romano è effettivamente un ghetto, isolato dalla città, insicuro, recintato, chiuso, dove non esiste alcuna possibilità di inclusione sociale. Abbiamo paura per noi e per i nostri figli, perché vivere a Castel Romano significa vivere nella sofferenza e rinunciare al futuro. Dopo trent’anni non ce la facciamo più a vivere nei ghetti. Costringerci a farlo rappresenta per noi un atto di discriminazione”.
In seguito a un’ordinanza del sindaco, il 12 agosto scorso le forze dell’ordine avrebbero dovuto sgomberare l’insediamento di via Salviati. Lo sgombero, tuttavia, è stato sospeso e rimandato di alcuni giorni.
La comunità rom, ad oggi, vive nella costante tensione per un imminente sgombero e per il rischio di essere trasferita nuovamente a Castel Romano. Consapevole della necessità di non poter e non voler restare nell’attuale insediamento di via Salviati, la comunità lancia quindi un appello al sindaco per iniziare una nuova stagione di dialogo e un percorso all’insegna dell’inclusione.
«La mia comunità è disponibile a rimboccarsi le maniche e ad assumersi delle responsabilità per intraprendere un percorso che non ci porti più a vivere nei campi e nel degrado, per essere inclusi, per integrare i nostri figli, per avere un futuro migliore. Ci chiamano nomadi ma non è quello che siamo e ci sentiamo», prosegue la lettera.
«Questo appello rappresenta la possibilità di trasformare il “problema dei rom di via Salviati” in una opportunità storica per sperimentare percorsi virtuosi di inclusione sociale così come previsto e richiesto  dalla Strategia Nazionale di Inclusione di Rom, Sinti e Camminanti», afferma l’Associazione 21 luglio.
La politica dei “campi”, alimentata dalla passata Amministrazione con il Piano Nomadi, non ha prodotto che segregazione abitativa e concentrazione su base etnica. «È il momento che anche a Roma, come già avviene in altre città italiane, ai rom vengano offerte soluzioni diverse da quelle dei “campi”».
«Passare dalla ghettizzazione all’inclusione sociale: è questa la grande occasione che Roma ha davanti a sé per dimostrarsi Capitale europea attenta ai diritti umani e ai bisogni delle categorie più svantaggiate», conclude l’Associazione.

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