Storie di donne rom durante il fascismo: la vita di Rosa Raidich
Non solo Germania e Polonia, anche l’Italia si è macchiata dell’orrore dei campi di internamento. Durante il fascismo la Sardegna è stata terra di deportazioni e tra il ‘38 e il ‘40 è diventata meta forzata dei rom e dei sinti – italiani e non – residenti in Istria o altre zone di confine, che subirono rastrellamenti durante il regime.
Rosa Raidich è una delle tante donne rom italiane a cui viene inflitta in maniera arbitraria la pena del confino, cui è condannata per 5 anni nel 1938 dalla Commissione provinciale di Pola.
Rosa è nata e cresciuta a Castelverde di Pisino, nell’Istria che prima appartiene agli Asburgo poi all’Italia. Quando scatta l’ordinanza di confino contro di lei, Rosa ha 27 anni e due figli piccoli, Marcello e Vittorio. Partono per Chiaramonti, in provincia di Sassari, tra le campagne polverose di una Sardegna all’epoca ancora molto povera ed isolata.
Durante la permanenza forzata sull’isola, Rosa è condannata più volte per accattonaggio, un reato a cui è di fatto condannata: sola e con quattro figli (durante il confino dà alla luce altri due bambini) non ha i soldi per sfamare e vestire la sua famiglia e persino il sussidio che le spetterebbe di diritto tarda ad arrivare. Viene spostata da una località all’altra, rifiutata da tutti: dopo Chiaramonte, la mandano a Busachi, Ovodda poi Perdasdefogu. Scrive lettere disperate alle istituzioni per chiedere il sussidio e un luogo meno freddo in cui abitare. Le istituzioni sono molto lente nel rispondere e allo scadere della pena, anziché rimpatriarla le prolungano ulteriormente il periodo obbligatorio di confino. I commercianti non le fanno più credito e anche i suoi figli ne fanno le spese: sono “scalzi, deperiti e pallidini” nelle testimonianze d’archivio.
Mussolini istituisce nel ’26 il confino come misura repressiva, e parlandone alla Camera a maggio dell’anno successivo lo definisce un “modo intelligente” di fare repressione, «non è terrore, è igiene sociale» – affermava – «si levano dalla circolazione questi individui come un medico toglie dalla circolazione un infetto». Il prefetto presiedeva la commissione provinciale che deliberava il confino, e con criteri del tutto discrezionali definiva i “soggetti socialmente pericolosi” da condannare al confino.
La vita di Rosa Raidich è stata raccontata da Licia Porcedda, ricercatrice presso l’École des hautes études en sciences sociales di Parigi, durante il convegno “La deportazione e l’internamento: storie di donne rom durante il fascismo”, organizzato al Senato in occasione della Giornata della Memoria.
Conoscere la storia di Rosa significa conoscere e capire la sorte a cui è stata condannata l’intera popolazione dei rom e dei sinti durante il regime e la guerra. Oltre al confino e la deportazione, i reati di cui è stata accusata, come l’accattonaggio, sono di fatto reati a cui le stesse istituzioni l’avevano condannata. «Moltiplicate quello che vi ho raccontato per 500 rom e sinti» – ha concluso Licia Porcedda – «tanti sono i nomi ritrovati nei documenti d’archivio – confinati, internati, deportati in Italia durante la seconda guerra mondiale. E chissà quanti nomi mancano».
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