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Riccardo De Corato

"Delinquenti per cultura": Osservatorio 21 luglio segnala le dichiarazioni di Riccardo De Corato

«In determinate culture, la delinquenza s’impara fin da giovani» queste le parole pronunciate da Riccardo De Corato, capogruppo di Fratelli d’Italia al Consiglio Regionale della Lombardia, per commentare un fatto di cronaca riguardante un’unica persona appartenente alla comunità sinti. «In questi anni, accanto a notizie di cronaca che vedevano le diverse etnie nomadi al centro di vicende criminose, abbiamo letto di iniziative, pagate con i soldi dei contribuenti, a loro favore – ha proseguito – Come possono i Comuni di centrosinistra, come Milano, continuare a fornire sostegno a queste persone? Ben sapendo quanto comportamenti criminosi siano insiti nel loro stile di vita?» (Qui il link all’articolo che riporta le dichiarazioni).

Perché la segnalazione

Tali frasi hanno richiamato immediatamente l’attenzione dell’equipe di lavoro dell’Osservatorio 21 luglio che ha segnalato le dichiarazioni agli organi competenti, esprimendo preoccupazione per la visione che viene data tout court delle comunità rom e sinte.
I commenti rilasciati sulla vicenda, oltre ad avere carattere congetturale e generalizzante «contribuiscono alla diffusione di pregiudizi e stereotipi – si legge nella lettera di Associazione 21 luglio alle autorità – suscettibili di radicare ancor più nell’immaginario collettivo la visione di rom e sinti come altro da sé, come un “problema”, penalizzando così indistintamente l’intera comunità e alimentando nella popolazione residente un sentimento di rigetto e di intolleranza».
Attribuire la delinquenza a un’appartenenza etnica o culturale è un pregiudizio gravissimo, tanto più se un messaggio del genere viene diffuso da rappresentanti politici che avrebbero il compito – proprio in virtù del ruolo che ricoprono e per il maggiore impatto delle proprie idee nella società – di arginare la diffusione di sentimenti di intolleranza e xenofobia.

L’Osservatorio

L’Osservatorio 21 luglio svolge una costante e scrupolosa attività di monitoraggio per tenere traccia degli “hate speech” e attivare misure correttive volte alla decostruzione degli stereotipi e dei pregiudizi che coinvolgono autorità, esponenti pubblici e media.
Guarda la mappa dei “discorsi d’odio” 2017.
Foto di LaMartesana.it

Non dire rom.

NON DIRE ROM. Ricerca/azione sulla realtà "aumentata" del web. Modificare il linguaggio per smontare gli stereotipi

“Non dire rom” è una ricerca/azione portata avanti grazie alla collaborazione della testata on-line Roma Today. Diversamente dalla ricerca tradizionale, la ricerca/azione indaga il fenomeno non in maniera “statica” ma influendo direttamente sul contesto. Nello specifico questa ricerca si basa su un interrogativo: se modifichiamo il linguaggio che descrive la realtà, possiamo stimolare un cambiamento nella rappresentazione che, in senso più ampio, si ha di essa?
SCARICA LA RICERCA COMPLETA
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pregiudizi.

Informazione e pregiudizi: commento all'articolo di Veneziani su "Il Tempo"

Il 24 giugno 2017 è apparso su “Il Tempo” un pezzo di Marcello Veneziani intitolato “La leggenda dei Rom, la realtà degli zingari”. Nell’articolo il giornalista deplora come oggi l’informazione di massa, la politica e l’opinione pubblica si preoccupino di più delle discriminazioni e gli attacchi razzisti subiti dalla comunità Rom in Italia che degli atti criminali di cui molti di loro si rendono spesso colpevoli. Secondo il giornalista, questo sarebbe il risultato di una diffusa cultura del politically correct, che frenerebbe politica e informazione dal raccontare la realtà per quello che è, all’insegna dell’ideologia “buonista”. In realtà quanto asserisce Marcello Veneziani nel suo pezzo del 24 giugno è a sua volta intriso di stereotipi e pregiudizi sulla realtà della comunità rom residente in Italia.
Ecco perché abbiamo elaborato una risposta al suo pezzo, soffermandoci su tre punti in particolare.
1. La “natura nomade” dei rom
È uno dei pregiudizi più diffusi su questa comunità, tanto che il giornalista Veneziani ne attinge a piene mani nel suo articolo, parlando di “natura nomade” e addirittura di “statuto di nomadi”. In realtà, a fronte di una popolazione rom e sinti residente in Italia pari a circa 170-180 mila persone, solo il 3% ha uno stile di vita nomade. Anche per tale etnia, trasferirsi in diverse parte d’Italia è legata a bisogni economici, e non dal movente “culturale”. Parlare di “cultura nomade” è dunque sbagliato e pregiudizievole. È altrettanto vero, tra l’altro, che la maggior parte dei Rom – 4 su 5 per l’esattezza – non vive nemmeno nei campi, ma in appartamenti convenzionali, perfettamente integrati nel tessuto sociale e lavorativo del Paese.
2. La cittadinanza dei Rom
“Non dovrebbe la legge italiana, l’autorità, le forze dell’ordine intervenire di conseguenza, prevedendo in questi casi anche espulsioni?”. Così scrive Veneziani. A questo proposito, è bene notare che, tra i rom e sinti residenti in Italia, almeno la metà è in possesso di cittadinanza italiana. Tra quelli che vivono in baraccopoli, la percentuale scende al 37%, rimanendo comunque significativa.
Parlare di espulsioni è scorretto anche in riferimento a rom e sinti di cittadinanza romena o bulgara, in quanto appartenenti alla Comunità Europea e allo spazio Schengen. Si noti inoltre che circa 3,000 persone di etnia rom e sinti, nate e residenti in Italia e principalmente originarie dell’ex Jugoslavia, sono apolidi di fatto o a rischio apolidia e non possiedono alcun documento di identità. Parlare di espulsioni non è dunque plausibile per un buon numero di Rom residenti in Italia.
3. Il diritto alle case popolari
L’articolo deplora infine che i rom possano avere accesso a “case popolari che non siamo in grado di dare gli italiani indigenti”. Su questo punto, vogliamo sottolineare che le case popolari vengono assegnate dai Comuni italiani alle famiglie presenti sulle liste di attesa secondo precisi criteri di vulnerabilità, tra cui non rientra certo l’appartenenza etnica. Pertanto, la retorica secondo cui i rom priverebbero “gli italiani indigenti” del diritto a una casa popolare è da ritenersi quantomeno imprecisa.
Altrettanto si può riferire all’ipotesi che si costruiscano “per i rom quelle cittadine residenziali che non riusciamo a costruire per i terremotati”. Riteniamo che in questo contesto si stiano fondendo due tipi di emergenze (quella abitativa e quella dei terremotati) molto distanti tra loro e non equiparabili. Compararle in questo modo può quindi risultare ingannevole.
Richiamiamo quindi all’adozione di un’informazione libera dai pregiudizi e di un linguaggio più corretti.

Associazione 21 luglio diffida Marchini: discorsi stereotipati favoriscono la discriminazione

Associazione 21 luglio ha inviato una lettera di diffida al candidato sindaco di Roma Alfio Marchini, in seguito ad alcune dichiarazioni rilasciate lo scorso 26 febbraio durante un’intervista al quotidiano la Repubblica relativamente alla cosiddetta “questione rom”.
«Io dico che sono delle persone per la grandissima parte che proprio per la loro identità hanno una difficoltà di integrazione» – ha asserito Alfio Marchini – «Non vogliono farlo. Quando io sento cose sublimi tipo “facciamoli integrare”, quelle persone sono persone che volente oppure nolente hanno una loro identità forte e quindi non chiedono l’integrazione, sono orgogliose del loro status».
L’Osservatorio 21 luglio, che ha il compito di monitorare i principali canali di informazione per segnalare eventuali dichiarazioni incitanti all’odio e alla discriminazione, ha evidenziato come affermazioni di questo tipo incoraggino e favoriscano la diffusione di pregiudizi razziali legati ad una visione stereotipata e negativa tout court delle comunità rom e sinte.
Nella lettera si ricorda la responsabilità dei rappresentanti della politica, specie in campagna elettorale quando si raggiunge un pubblico ancora più ampio, a evitare ogni forma di discriminazione razziale e a contrastare la diffusione di pregiudizi basati su caratteristiche etniche oltre che di idee che potrebbero incitare all’odio o a sentimenti di intolleranza e xenofobia. Questi principi sono sanciti dall’Articolo 1 della Dichiarazione sulla razza e sui pregiudizi razziali, adottata il 27 novembre 1978, che afferma proprio come la diversità sia un diritto dell’individuo e dei gruppi e non possa in alcun modo costituire un pretesto per pregiudizi razziali o discriminazione.
La libertà di manifestare il proprio pensiero, protetta dall’articolo 21 della Costituzione, trova un limite dove iniziano i diritti inviolabili dell’uomo, come il diritto d’uguaglianza – anch’esso riconosciuto nella Costituzione – che è il presupposto indispensabile per il riconoscimento della dignità umana e la non discriminazione.
Associazione 21 luglio conclude, quindi, con l’invito a porre una maggiore attenzione nei messaggi veicolati nelle dichiarazioni pubbliche, desistendo dal continuare a rilasciare affermazioni di potenziale incitamento alla discriminazione, all’odio e all’intolleranza.
Foto di: Formiche.net 

Quel pregiudizio che mi rende triste

Sulta è la matriarca della sua famiglia, ha 8 figli e 37 nipoti sparsi per il mondo. Si rattrista per l’atteggiamento discriminatorio che percepisce nei suoi confronti camminando per la strada: «Quando entro in un negozio vedo la gente mettere subito la mano al portafoglio: vorrei dire loro che non sono lì per rubare!». 
Sulta porta i segni degli anni sul volto, molti dei quali vissuti in Italia. Quando è arrivata, nel’75, all’epoca esisteva ancora la Jugoslavia, suo Paese di origine. Aveva già partorito tre figli e appena giunta qui è nata la quarta. Non sapeva ancora parlare la lingua e si è fatta tatuare sul polso l’anno di nascita della sua bambina.
Racconta che ad oggi solo quattro dei suoi otto figli sono rimasti in Italia, gli altri sono emigrati in Paesi diversi. Ha quasi perso il conto di tutti i suoi nipoti, che si moltiplicano considerando i figli di fratelli e sorelle, ma è un sollievo pensare che stanno tutti bene.
Della guerra in Jugoslavia sa poco o niente, l’ha vissuta da lontano e preferisce pensare alle persone che vivono in pace.
Guardando indietro verso il passato ricorda: «Tante volte siamo andati a dormire senza mangiare. Se andavo a chiedere l’elemosina mangiavamo, altrimenti no».
Eppure sente sempre gli sguardi addosso quando cammina per le strade della città, di occhi che la guardano con diffidenza e con la lente del pregiudizio: «Quando entro in un negozio vedo la gente mettere subito mano al portafoglio. Mi piacerebbe dire loro che non sono lì per rubare».

«Sei nomade se ti sposti, ma io sono sempre stata qua»

Monica è figlia di genitori montenegrini. Lei è nata a Roma, al “Casilino 900”, oggi vive da sola nel “campo rom” di Salone ed è mamma di due figli di quattro e sei anni. Non si è mai spostata dall’Italia e soffre del pregiudizio secondo cui quella dei rom sarebbe una popolazione senza fissa dimora: «Non siamo nomadi. Io sono sempre stata qui».
Quando ha saputo che sua figlia aveva partecipato alla recita scolastica senza essere stata avvisata, Monica ha sofferto molto. È andata a scuola per chiedere spiegazioni e l’insegnante, stupita, si è scusata dicendo che non credeva le potesse interessare in quanto rom, quindi nomade. «Le ho fatto capire che io ci tengo e da quel giorno mi ha sempre avvisato» – racconta con un ampio sorriso – «lo scorso Natale ho assistito per la prima volta alla recita di mia figlia, interpretava il ruolo di asinello per il presepe vivente. È stata un’esperienza bellissima, mi sono commossa e sono stata bene insieme a tutte le altre mamme».
Secondo i dati disponibili sul tema, oggi solo il 3% della popolazione rom presente in Italia è nomade, prevalentemente per svolgere attività lavorative stagionali.
Il falso mito legato al presunto nomadismo dei rom nasce da un equivoco di fondo: storicamente, infatti, più che di una scelta di vita per molti si è trattato di diaspora, fuga dalle guerre o, appunto, esercizio di attività lavorative che richiedevano continui spostamenti. Proprio in relazione a questo presupposto nomadismo, fin dagli anni ’80 si sono applicate negli anni misure discriminatorie che hanno portato fino alla “politica dei campi rom”.
L’istituzionalizzazione dei campi ha di fatto prodotto, attraverso la ghettizzazione e la segregazione di uomini e donne in base alla propria etnia, un vero e proprio razzismo di stato. L’equivoco sul nomadismo e la presunta necessità di vivere nei “campi” o in aree attrezzate è oltretutto completamente infondato: solo un quarto della popolazione rom presente in Italia vive nei “campi”, tutti gli altri hanno una casa, emblema incontrastabile della “fissa dimora”.
«Sei nomade se ti sposti, ma io sono sempre stata qua», racconta Monica con amarezza. Nata e cresciuta nel grande “campo” informale del “Casilino”, collocato nel quartiere omonimo da cui prende il nome, dopo il passaggio delle ruspe che hanno portato allo sgombero forzato degli abitanti, Monica è stata trasferita nel campo di Salone, dove vive attualmente con i suoi figli. Nonostante sia effettivamente italiana, è apolide di fatto e non ha i documenti. Senza cittadinanza né permesso di soggiorno, oltre alle difficoltà per ottenere un lavoro o l’assistenza sanitaria, ha avuto problemi anche per la registrazione dei figli all’anagrafe.
In Montenegro, il paese che secondo la legge dovrebbe darle i documenti, non ci è mai stata e non ha nessuna intenzione di andarci. La sua vita l’ha costruita in Italia e vuole continuare a viverla qui. Non conosce la lingua montenegrina e quando le è capitato di ascoltare la musica originaria del paese dei suoi genitori, ha chiesto di farsi tradurre il testo. Vivere in un “campo” e senza documenti per lei, come per molti altri che vivono nelle sue stesse condizioni, è una privazione dell’identità oltre che una discriminazione: «sento che è come se non esistessi», confida.
Per Monica il confronto con l’esterno è molto importante, per questo l’esperienza a scuola di sua figlia è stata fondamentale. Ha conosciuto le mamme delle altre bambine, si è rapportata con loro e si è sentita parte di una comunità. È stato motivo di soddisfazione anche avere l’opportunità di mostrare, attraverso la sua esperienza, un’immagine lontana dagli stereotipi con cui i rom vengono normalmente etichettati.

Salvini e i rom: più che ruspe, informazione

La tragedia di due giorni fa nella Capitale – un gravissimo fatto di cronaca trasformato in una campagna d’odio anti-rom – ha dato il la al leader della Lega Nord Matteo Salvini per avventarsi su quanto accaduto e reiterare, a pochi giorni dal voto regionale, la sua personale crociata a base di discorsi d’odio (hate speech) nei confronti dei rom e sinti in Italia.
Una campagna, che ha come effetto quello di soffiare sul fuoco dell’ostilità e dell’intolleranza verso tali comunità, partita già lo scorso dicembre, quando Salvini presentò la lista “Noi con Salvini” in vista della campagna elettorale per le elezioni regionali 2015.
Abbiamo analizzato i discorsi di Salvini, individuandone le tesi principali (vedi sotto). Ne emerge un quadro di frasi, slogan propagandistici e retorica stigmatizzante che amplifica e replica stereotipi e pregiudizi negativi, sfociando nel rischio concreto di una graduale sedimentazione ed escalation dell’antiziganismo, il sentimento d’odio verso rom e sinti.
Gli effetti di una tale diffusione e di un tale grado di accettazione dell’antiziganismo sono vari, ma si possono riassumere in tre principali ripercussioni:

  • Ripercussioni materiali, in termini di trattamenti o atteggiamenti discriminatori, sulla vita quotidiana di rom e sinti, in particolare nella sfera dell’impiego e dell’abitare;
  • Un graduale innalzamento della soglia di accettazione nei confronti di discorsi e retoriche apertamente ed esplicitamente penalizzanti e stigmatizzanti, con il rischio di facilitare occasionali derive violente;
  • Un enorme ostacolo per l’applicazione di politiche effettivamente inclusive rivolte a rom e sinti, dovuto al fatto che un’elevata diffusione di sentimenti antizigani funge da enorme fattore deterrente per l’attuazione di politiche di inclusione sociale da parte delle amministrazioni locali.

 
Per contrastare il fenomeno dell’hate speech, occorrerebbe  anzitutto un cambiamento culturale che coinvolga l’insieme della società: dai politici agli insegnanti, ai professionisti dell’informazione fino all’insieme dell’opinione pubblica. Per facilitare tale processo, sono più che mai necessari strumenti dissuasivi efficaci per arginare tali derive del discorso politico, di cui tuttavia il nostro Paese non dispone in maniera sufficiente rendendosi così terreno fertile per la diffusione dell’hate speech e ritardando il momento in cui l’utilizzo della retorica dell’odio nelle sue diverse declinazioni smetterà di essere proficua e comporterà anzi un caro prezzo da pagare, ad esempio in termini di isolamento politico.
«Gli Stati parte devono dedicare la dovuta attenzione a tutte le manifestazioni di discorsi d’odio di stampo razzista e adottare misure efficaci per combatterli», si legge nella Raccomandazione Generale sui discorsi d’odio diffusa a fine 2013 dal Comitato delle Nazioni Unite per l’Eliminazione della Discriminazione Razziale (CERD).
Di fronte alla valanga di dichiarazioni rilasciate negli ultimi mesi, settimane e giorni dal leader leghista Matteo Salvini, di fronte alla constatazione della scarsità di strumenti, in Italia, per mettere un argine ai discorsi d’odio, di fronte alle ricadute devastanti che tali discorsi hanno sulle vite di rom e sinti e sulla percezione pubblica nei loro confronti, il rischio, per chi vorrebbe un’Italia libera da discriminazioni e pregiudizi, è di lasciarsi travolgere dal senso di rassegnazione e dalla constatazione del vanificarsi dei propri sforzi. Si verrebbe così tentati dall’alzare bandiera bianca, non provare più a scardinare stereotipi e luoghi comuni, restare in silenzio.
Eppure sappiamo bene che non possiamo, e mai potremo farlo, perché quella dei diritti umani è una sfida che si gioca e che si vince a poco a poco, un tassello dopo l’altro. Per questo la nostra Associazione – insieme, ne siamo certi, a tutti gli uomini e le donne in Italia che condividono le nostre preoccupazioni e la nostra sfida – continuerà a denunciare e a raccontare fatti e storie nell’intento di decostruire gli stereotipi negativi e i pregiudizi diffusi nei confronti di rom e sinti. Quell’onda antizigana che Matteo Salvini ha cavalcato pur di guadagnarsi il consenso elettorale. Sulla pelle dei rom.


 

 

MATTEO SALVINI E LA RETORICA ANTI – ROM


Non vogliono lavorare e integrarsi

Salvini: “Ma i rom rubano tutti?” “Troppi. Ce ne saranno 3 che lavorano non so 5… su 180 mila che sono in Italia” (15 aprile 2015, Matrix, Canale 5).
Oggi nel nostro Paese, sono circa 35 mila i rom e i sinti che vivono nei cosiddetti “campi rom”, 1 su 5 del totale dei circa 170-180 mila rom e sinti presenti in Italia. Tutti gli altri vivono in regolari abitazioni, studiano, lavorano e conducono una vita come quella di ogni altro cittadino, italiano o straniero, residente sul territorio nazionale. Le loro storie, purtroppo, sono poco conosciute, sia perché molto spesso i media prediligono dare spazio a notizie dove rom e sinti sono protagonisti in negativo, sia perché i rom e sinti che conducono una vita “normale” preferiscono restare “mimetizzati” e non rivelare la propria identità.
I “campi rom” non sono pertanto i luoghi dove queste persone vorrebbero vivere “per cultura”, bensì il posto che le istituzioni hanno individuato per relegarvi, su base etnica, tali comunità. Si tratta di luoghi di marginalizzazione, dove le persone sono di fatto escluse dal tessuto sociale, e che certamente favoriscono anche fenomeni di devianza e criminalità. Questi luoghi, creati e gestiti dalle istituzioni, costano diversi milioni di euro alle casse pubbliche. Nella Capitale, nel solo 2013, per mantenere in vita il “sistema campi” sono stati spesi 24 milioni di euro: un ingente flusso di denaro affidato senza bando pubblico, in maniera diretta, a enti e cooperative per la sola gestione dei “campi”, mentre quasi nulla è stato destinato all’inclusione sociale delle persone e alla prospettiva di una loro fuoriuscita da questi luoghi. Un sistema nel quale è potuta infiltrarsi anche la Mafia Capitale.

Hanno troppi privilegi. Prima gli italiani

Salvini: “Non esiste che ci siano migliaia di queste persone a cui gli italiani pagano luce, acqua, e gas. Non esiste che non paghino l’Imu” (8 aprile 2015, Otto e Mezzo, La7).
“Ci sono tanti toscani magari alluvionati che dicono anch’io vorrei avere una casa per 15 persone con l’affitto pagato e vorrei campare senza fare una mazza dalla mattina alla sera” (1 dicembre 2014, Piazza Pulita, La7).
Vivere in un “campo rom” non è un privilegio; al contrario, è una condanna. Significa subire quotidianamente violazioni dei propri diritti umani, dal diritto all’alloggio al diritto all’istruzione, dal diritto alla salute al diritto al gioco, sino al diritto alla famiglia. I “campi nomadi”, rappresentano da anni un’anomalia tutta italiana (il nostro Paese è l’unico in Europa dove esistono “campi per soli rom” istituzionali) e buona parte di essi rientra nella definizione di “baraccopoli” adottata dalla agenzia delle Nazioni Unite UN Habitat.
Sono spesso delimitati da recinzioni e sistemi di videosorveglianza e di controllo degli ingressi; in molti casi sono collocati al di fuori del tessuto urbano e distanti dai servizi primari, come scuole, ospedali e supermercati; sono spesso caratterizzati da condizioni igienico-sanitarie critiche, sono sovraffollati e si compongono di unità abitative prive di spazi adeguati. Il “campo rom”, inoltre, si configura come luogo discriminatorio su base etnica, in quanto riservato esclusivamente a persone di “etnia rom”. Per altre categorie di persone in emergenza abitativa nel nostro Paese, infatti, il “campo” rom non è contemplato tra le soluzioni per rispondere alle loro esigenze.
Quanto al “prima gli italiani”, infine, non è da dimenticare che oltre la metà dei rom e dei sinti presenti in Italia sono cittadini italiani, cui si aggiunge una consistente fetta di persone nate e cresciute in Italia, ma prive della cittadinanza italiana, che non hanno neanche mai visitato il Paese di origine dei genitori e che non ne conoscono la lingua.

Hanno solo diritti, diritti. E niente doveri

Salvini: “Mi domando perché quando parlo di rom ci sono sempre diritti, diritti, diritti e i doveri arrivano in sedicesima fila” (1 dicembre 2014, Piazza Pulita, La7).
Quando si parla di diritti dei rom si fa riferimento ai loro diritti umani, quei diritti cioè sanciti per primi dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, che appartengono a ogni persona al mondo in quanto, appunto, essere umano. I diritti umani dei rom in Italia sono costantemente violati, in particolare, dalla “politica dei campi” che il nostro Paese continua ad attuare nei loro confronti.
Le condizioni al di sotto degli standard che si registrano nei “campi rom” hanno del resto attirato l’attenzione e le condanne da parte di numerosi enti di monitoraggio internazionali ed europei e organizzazioni per la tutela dei diritti umani, dal Comitato per l’Eliminazione della Discriminazione Razziale delle Nazioni Unite al Consiglio d’Europa, dal Comitato Europeo dei Diritti Sociali alla Commissione Europea contro il Razzismo e l’Intolleranza. Solo pochi mesi fa, per esempio, la Commissione Europea ha richiesto all’Italia informazioni sulle condizioni abitative dei rom nel nostro Paese, paventando l’ipotesi dell’apertura di una procedura d’infrazione: «Dispositivi di alloggio di questo tipo risultano limitare gravemente i diritti fondamentali degli interessati, isolandoli completamente dal mondo circostante e privandoli di adeguate possibilità di occupazione e istruzione», si legge nella lettera della Commissione.

Sfruttano i bambini e non li mandano a scuola

Salvini: “Il diritto umano viene violato da queste persone che sfruttano i bambini e non li mandano a scuola e li usano per accattonare e per fare altro” (22 aprile 2015, Il Fatto Quotidiano).
Sono la segregazione abitativa, l’esclusione sociale e la discriminazione, anche istituzionale, ad avere conseguenze devastanti sulla condizione di vita dei minori rom. Un minore rom che nel nostro Paese vive in un insediamento formale o informale, esposto a situazioni potenzialmente nocive per la salute, avrà una aspettativa di vita mediamente più bassa di circa 10 anni rispetto al resto della popolazione e avrà un alto rischio di contrarre le cosiddette “patologie da ghetto”, come ansie, fobie e disturbi del sonno e dell’attenzione.
La precarietà e l’inadeguatezza dell’alloggio, inoltre, hanno evidenti conseguenze sul percorso scolastico: in 1 caso su 5 un minore rom in emergenza abitativa non inizierà mai il percorso scolastico e avrà probabilità prossime alle 0 di accedere ad un percorso universitario. Le sue possibilità di poter frequentare le scuole superiori non supereranno l’1%, mentre da maggiorenne avrà 7 possibilità su 10 di sentirsi discriminato a causa della propria etnia.
Salvini: “Perché i tribunali dei minorenni vanno a rompere le palle alle mamme e ai papà italiani se hanno qualche problema e non vanno a casa di questa gente” (10 aprile 2015, Mattino 5, Canale 5).
Secondo la ricerca “Mia madre era rom” dell’Associazione 21 luglio, che ha preso in considerazione i fascicoli relativi a minori rom affrontati dal Tribunale per i Minorenni di Roma tra il 2006 e il 2012, un minore rom, a Roma e nel Lazio, rispetto ad un suo coetaneo non rom, ha 60 volte la probabilità di essere segnalato alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni e 50 volte la probabilità che per lui venga aperta una procedura di adottabilità. Di conseguenza, è il dato più emblematico, un bambino rom ha 40 volte la probabilità di essere adottato rispetto a un bambino non rom.

Ruspe nei campi rom. Sgomberarli tutti

Salvini: “Nella nostra Italia non c’è spazio per i campi rom. Nella nostra Italia noi mandiamo una letterina a questi signori dicendo fra tre mesi si sgombera. Organizzati. Fra tre mesi qua arrivano le ruspe. Organizzati. La casa la compri, la affitti, chiedi la casa popolare, fai il mutuo ma non puoi più campare alle spalle degli italiani. Fra tre mesi si sgombera, basta vai a fare il rom da qualche altra parte” (28 febbraio 2015, comizio a Piazza del Popolo, Roma)
È vero: nella nostra Italia non ci dovrebbe esser spazio per i “campi rom”. Per via delle ripetute violazioni dei diritti umani che essi comportano, come già descritto nei precedenti punti. I “campi”, dunque, andrebbero superati, come l’Italia si è del resto già impegnata a fare con il varo, nel febbraio 2012, della Strategia Nazionale di Inclusione dei Rom, dei Sinti e dei Camminanti. La soluzione per il superamento dei “campi”, tuttavia, non è la ruspa, come propone Matteo Salvini, anche perché terminata l’azione distruttiva delle ruspe uomini, donne e bambini non svanirebbero di certo nel nulla. La soluzione per superare i “campi” e l’assistenzialismo inutile e inefficace risiede invece nel l’attuazione di efficaci percorsi di inclusione sociale volti a favorire la fuoriuscita da tali ghetti etnici di persone in emergenza abitativa. In questo modo, d’altra parte, si eviterebbe di continuare a utilizzare ingenti risorse pubbliche per mantenere in piedi il “sistema campi”, senza che un euro venga destinato all’inclusione sociale dei loro abitanti, ma investito nel reiterare un circolo vizioso di discriminazione, povertà e marginalizzazione.
 
Foto: Umbria24.it

Rom, cittadini dell'Italia che verrà: due nuovi video

Abbiamo realizzato due nuovi video di “Rom, cittadini dell’Italia che verrà“, l’iniziativa per raccontare le storie quotidiane degli oltre 130 mila rom e sinti che, in Italia, non vivono nei “campi”.
Le protagoniste dei due video sono Concetta, di Isernia, e Ivana, di Torino, entrambe giovani rom che, attraverso le loro testimonianze, ci aiutano a smontare gli stereotipi, i pregiudizi e i luoghi comuni verso le comunità rom e sinte nel nostro paese.
Concetta e Ivana raccontano le loro passioni e i loro sogni e mettono in evidenza la loro vita quotidiana. Una vita come quella di ogni altro cittadino italiano loro coetaneo.
“Rom, cittadini dell’Italia che verrà” rientra tra le attività della campagna dell’Associazione 21 luglio “Stop all’apartheid dei rom!“, realizzata grazie al sostegno di Bernard van Leer Foundation.
           

Sabrina_attivista_rom_21luglio

Sabrina: "Noi rom non siamo come ci dipingono i media"

Sabrina, 23 anni, vive nel "campo rom" di San Nicolò d'Arcidano, in Sardegna

Sabrina, 23 anni, vive nel “campo rom” di San Nicolò d’Arcidano, in Sardegna


[tfg_social_share]Sabrina Milanovic ha 23 anni, è italiana e vive in un “campo rom” a San Nicolò d’Arcidano, in provincia di Oristano, in Sardegna. È stanca dei pregiudizi e degli stereotipi negativi diffusi nei confronti della sua comunità e vorrebbe impegnarsi per promuovere e valorizzare i diritti dei rom nella sua cittadina e nel resto d’Italia.
«Noi rom veniamo continuamente discriminati e questo succede non perché la gente sia cattiva o in malafede. Ma semplicemente perché non ci conosce e di noi sa solo le cose brutte che scrivono i giornali. Ma noi non siamo come ci dipingono i media e non è giusto che per colpa di alcuni a subirne le conseguenze debbano essere tutti i rom»
Dallo scorso ottobre Sabrina frequenta il Corso di formazione per attivisti rom e sinti organizzato dall’Associazione 21 luglio e dal Centro Europeo per i Diritti dei Rom (ERRC).
«Io voglio fare qualcosa in prima persona per combattere contro i pregiudizi nei confronti del mio popolo, per affermare i nostri diritti e per promuovere un’immagine differente di noi».
A San Nicolò d’Arcidano, la comunità rom è costituita da circa un centinaio di persone, il 3,5% della popolazione totale, composta da 2.800 abitanti. Dal 2011 i rom vivono in un nuovo “campo” dopo che un incendio aveva distrutto l’insediamento provvisorio in cui viveva la comunità.
Sabrina non vorrebbe vivere in un “campo” ma in una casa come ogni altro cittadino italiano.
«Vivere in un campo vuol dire vivere la vita in maniera amplificata. Le casette sono tutte attaccate e non hai un minimo di privacy».
Nel “campo” di San Nicolò d’Arcidano, “campo” realizzato dal Comune, gli abitanti rom vivono in baracche di 40 mq ciascuna all’interno delle quali, in alcuni casi, arrivano a dividere lo spazio anche 11 persone.
Secondo il Comitato per la Prevenzione della Tortura, istituito dal Consiglio d’Europa, lo spazio minimo nelle celle per ogni detenuto dovrebbe essere di 7 mq, cioè il doppio dello spazio a disposizione di alcuni residenti rom nel “campo” in provincia di Oristano.
Per Sabrina la strada per rafforzare i diritti delle comunità rom passa attraverso il lavoro.
«Bisogna che anche i rom abbiano opportunità lavorative. Questo servirà a combattere i pregiudizi, a favorire l’integrazione e il vivere insieme. In questo modo potremo non essere più giudicati per quello che non siamo».
L’appello
Nell’ambito della Campagna “Stop all’apartheid dei Rom!“, l’Associazione 21 luglio ha lanciato un appello nazionale con raccolta firme, rivolto ad otto Presidenti di Regione, per chiedere l’abrogazione delle Leggi regionali che istituiscono i “campi nomadi” in Italia, ghetti che alimentano la segregazione delle comunità rom e sinte e rendono impossibile l’inclusione sociale. Tra le regioni considerate figura anche la Sardegna. Per firmare l’appello “Inclusione per le comunità rom e sinte in Italia” clicca qui

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Rom ladri di bambini: così la stampa rafforza gli stereotipi

Una donna in un "campo rom" di Roma

Una donna in un “campo rom” di Roma


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Nei giorni del ritrovamento, in un campo rom in Grecia, di una bimba i cui tratti somatici non convincevano la polizia, parte della stampa italiana ha parlato dell’accaduto additando subito gli “zingari” come “ladri di bambini”.
“Ci hanno sempre detto che fossero fandonie. Che le zingare non rapiscono i bambini. Che ce lo inventavamo per attaccare i poveri zingari innocenti. Come, altre baggianate, erano, secondo i buonisti di sempre, le accuse di essere ladri d’appartamento e scippatori. Tiè! Ecco la prova provata”, si leggeva sul blog de Il Giornale.it lo scorso 20 ottobre.
Alcuni giorni dopo i genitori naturali della bimba dichiarano di averla affidata alla coppia con la quale è stata ritrovata, e un caso analogo in Irlanda si conclude con un test del DNA che conferma che la bimba in questione, seppur bionda con gli occhi azzurri, è figlia della coppia con la quale viveva. A fronte di questi acceratementi questo il commento del Secolo d’Italia del 24 ottobre: “Ciò conferma che pure le tribù rom, come loro stesse sostengono, possono dare alla luce bambini biondi con occhi azzurri o verdi, ma ciò non giustifica affatto la gravità del reato di rapimento da parte degli stessi nomadi, come purtroppo troppo spesso accade”.
In base a tali fatti, le associazioni Naga e Associazione 21 Luglio chiedono che la stampa agisca in modo consapevole, vista la grande responsabilità che ha nella creazione di stereotipi e pregiudizi. Un’informazione corretta deve sempre ricordare, soprattutto a se stessa, che per qualsiasi reato la responsabilità penale è individuale, mai di un “gruppo” o di un’etnia.
E non deve dimenticare che, come dimostrato anche da un’importante ricerca dell’Università di Verona, di tutte le notizie di fantomatici rapimenti che vedevano coinvolti cittadini rom tra il 1986 e il 2007, in nessun caso l’esito è stato una condanna per questo reato.
Proponiamo quindi ai singoli giornalisti, all’Ordine dei giornalisti, alla Federazione Nazionale della Stampa e agli editori di:
·         rispettare e applicare le Linee guida per l’applicazione della Carta di Roma;
·         dare voce ai cittadini rom e sinti, raccogliere le loro parole, interpellarli e ascoltarli come fonti.
Naga e Associazione 21 Luglio continueranno a monitorare i media e a fare pressione affinché la stampa si faccia portatrice di una rappresentazione diversa dei cittadini rom e sinti e di tutte le persone discriminate.
Foto: dumplife (Mihai Romanciuc) via photopin cc

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